PARTE PRIMA
Capitolo 1
Il ventre di Pecoraro ed i dialoghi dell'utopia
Everard Morin era venuto a portarci un'idea; ne risultò uno scompiglio. “Come può, questo signore, che viene dalla lontana Francia, sapere meglio di noi come relazionarci e come comportarci col nostro mondo e la nostra terra?” Questo era, più o meno, ciò che molti pensavano. Aleggiava, infatti, una sensazione di controllata diffidenza, che era comunque manifestata con saggezza, benché apertamente e senza falsi pudori.
“Professor Morin” – con fare educato, ma percettibilmente dissenziente, apostrofò Angelo- “come può parlare di valorizzazione delle particolarità, in un'era che di particolare non può permettersi nulla. Siamo tirati dentro questa globalizzazione, nostro malgrado, senza poter evitare nulla di tutto ciò …”.
“E' un'osservazione molto realista” – pensava Morin, istintivamente d'accordo ma, nello stesso tempo, proteso a rimettere in discussione il naturale pessimismo umano, e riportare il discorso del futuro su un piano prospettico moderatamente positivo, fiducioso come era sulle capacità di adattamento alle innovazioni, in special modo delle persone avvezze alla fatica ed abituate ad ingegnarsi per progredire, caratteristica particolarmente spiccata nelle persone del Sud. Ascoltava, perciò, con vero interesse, senza interrompere, tutto quanto proveniva da quegli interventi, che erano così spontanei, da farlo sentire come a casa di amici. Le idee degli interlocutori gli davano grande stimolo e gli risultavano, in genere, di grande nutrimento culturale. La sua grandezza scientifica e filosofica si basava proprio su questo. Le sue parole non suonavano mai assolutiste, e risultavano, bensì convincenti, pur apparendo più interlocutorie che dottrinali.
Angelo continuò “La globalizzazione a noi non piace granché; ma Lei è in grado di dirci in che modo un paese come questo possa sopravvivere, convivendo con la miseria tipica dei territori montani ed ancor più di quelli del profondo sud, a volte persino additati come un peso per il Paese Italia. E' vero che abbiamo delle pietre che stanno incuriosendo molti, ma a mio avviso, esaurita la curiosità, tutto finirà; ed a noi, in termini di crescita economica, sono convinto che non resterà proprio nulla”. “Anzi” – continua – “noi, di queste pietre, e di tutto questo interesse che hanno suscitato fuori di qui, non capiamo nulla. Noi sappiamo che sono lì, che sono sempre state lì, e che nessuno finora ha mai pensato minimamente che potessero essere strumento di rappresentazione verso l'esterno e, tanto meno, che ci potessero offrire possibilità di progresso economico”. Parlava dell'esterno con il tono di chi preferiva tenersi al riparo da invadenze illusionistiche. In effetti, involontariamente, prendeva forma in lui quella diffidenza fatta di sensazioni che suggerivano di tenersi alla larga da inutili e dannose strumentalizzazioni lobbistiche, che non rispettassero la sincera dedizione della gente per la genuina terra; sebbene questo amore, secondo lui, potesse senz'altro convivere con l'eventuale riconoscimento come luogo di miti dell'antichità. Ciò non sarebbe dispiaciuto ad Angelo, che era in sé convinto dell'importanza di questo paese, guardiano naturale del Pecoraro. Presentiva, tuttavia, che doveva rapportarsi con la modernità e doveva evitare di apparire un vecchio conservatore. Cercò, perciò, di spiegare il suo punto di vista con modi più ragionati e culturalmente più convincenti. “D'altro canto, ammesso che, potenzialmente, possa essere ricavata una qualsiasi sostanziale opportunità di espansione turistico-culturale, la fine del grande sogno globalizzante sarebbe già prevedibilmente in agguato, a causa delle insuperabili barriere, costituite dallo storico isolamento. Allora, visto che solo un miracolo potrebbe cambiare velocemente questa situazione, a mio avviso, sarebbe preferibile continuare a mantenere fede al rispetto della natura, cui i nostri padri ci hanno abituati. E' per questo che, pur non chiudendo le porte agli studi ed alle ricerche, auspichiamo che non ci venga corrotto quel naturale sistema di tradizioni ed abitudini, che costituiscono un fondamentale collante tra la gente, e che la genuinità di tradizioni e miti non sia violentata da speculazioni sterili e caduche”.
Angelo non nutriva alcuna superstizione, ma non era certo estraneo a quel modo di concepire il rapporto terra-uomo. Egli da quel rapporto se ne era in parte distaccato, avendo vissuto parecchi anni in Toscana, ma non si era distolto dalla sensibilità dei suoi compaesani che rispettava fortemente. Egli apprezzava tutte le idee e comprendeva certe idolatrie prive di qualsivoglia apparente razionalità: dalle narrazioni fantastiche, agli incantesimi, dalle utopie alle stregonerie, ancora oggi argomento di conversazione tra gli anziani. Ascoltava con vero interesse ed accettava con vera lealtà, la fi erezza dei loro racconti. Anche quando si spingevano a parlare, in termini attuali, di temuti malefici e stregonerie conseguenti alla trasgressione dei misteri, quali l'inviolabilità notturna dei luoghi, un tempo considerati sacri, egli si faceva serio e rispettoso delle convinzioni altrui. Ogni volta che tornava alla sua vecchia Nardodipace, Angelo si accorgeva che la lontananza l'aveva avvicinato ancora di più ai valori culturali della sua gente e si rendeva conto di essere sempre più permeato della mentalità che esigeva il rispetto delle tradizioni. Era per questo che il suo intuito gli suggeriva di difendere memorie e costumi, da un'invasiva profanazione mediatica. Ammesso pure che esigenze scientifico-antropologiche, o filosofiche, ponessero la necessità di studi più approfonditi – ragionava Angelo – questo non poteva giustificare un'anticipata profanazione di credenze e tradizioni, le quali, proprio perché frutto di fantasia, e cioè della parte interiore dell'essere umano, fanno cogliere un aspetto fondamentale del destino dell'uomo, di ieri e di oggi, errante in questo sconosciuto brandello di universo.